OTTONE PESANTE / SUDOKU KILLER – SUBSOUND SPLIT SERIES #08 (2019, Subsound Records)

Tendiamo un filo immaginario: diamo un capo del filo ad Hannibal Lecter e l’altro ad Anton Chigurh, il sicario di “Non è un paese per vecchi”. E su questo filo facciamo camminare due progetti: gli Ottone Pesante e Sudoku Killer di Caterina Palazzi. Uno da un lato e uno dall’altro.

Diamo a questo filo immaginario la forma di uno split (per la precisione il numero otto della serie prodotta da Subsound Records) e cominciamo a camminarci sopra partendo dal lato del trio brasscore: si inizia con In The End Silence Under The Snow ed è chiaro quello che gli Ottone Pesante sono. Un gruppo metal, con i fiati al posto delle corde, impegnato a suonare in una sala da ballo dalle tinte doom. Dalla successiva Weak il paragone coi Mombu diventa quasi inevitabile: ma qui si parla di metal, non di afro come nel caso del duo romano. L’atteggiamento è completamente diverso: la pesantezza, l’incedere, tutto fa pensare al “pesante” che non a caso è pure nel nome del gruppo. La vicinanza col duo Zitarelli/Mai continua a farsi sentire anche nella successiva Zinculate, anche se a momenti sembrano pure i più estremi Black Engine: la batteria diventa tesa, nervosa ed iperattiva.
Ascoltare la metà-split degli Ottone Pesante è come partecipare ad un funerale in cui il morto, d’improvviso, salta fuori dalla cassa e comincia ad aggredire la banda a colpi di rumore. E che, solo quando ha finito, prende e si scava la fossa, contento di aver portato a termine il lavoro in maniera ineccepibile.
Dall’altra parte del filo, invece, in contemporanea, cammina inarrestabile la contrabbassista romana Caterina Palazzi e il manipolo di musicisti che l’accompagna nel progetto Sudoku Killer. Ci viene sbattuto in faccia il jazzcore più spinto che vi viene in mente, con momenti di respiro, ma respiro affannoso, sempre teso. Ad un ascoltatore non abituato Asperger Suite potrebbe far paura per un po’ di motivi: il rumore che cresce distruggendo tutto; i terreni non facili su cui il progetto s’incammina (a partire dal post-rock per degenerare in jazz rumoroso e nel noise più puro); e, soprattutto, i quasi quindici minuti di durata del brano. Ma tutto ciò è un test: Caterina Palazzi vi invita a rompere le barriere nella vostra testa e ad allargare gli orizzonti, non ne rimarrete delusi.

In conclusione, vi troverete davanti ad un filo lungo trenta minuti sul quale entrambi i progetti cammineranno come equilibristi senza mai un passo falso. E direi che, detta così, suona bene, no? Devo davvero aggiungere altro?

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