GRES – LA GIUSTA DISTANZA (2020, We Work Records)


Quattro persone che si incontrano dietro un nome, Gres, e che provengono da band diverse (la ricetta per il cocktail, come suggerisce giustamente la pagina facebook è: 1/4 Moscova, 1/4 MySpeakingShoes, 1/4 Reverve, 1/4 You VS Everything) e sonorità che si scontrano in un risultato che convince. Percorrendo binari tra l’emo e il grunge – qualche nota post-hardcore qui, un dettaglio noise di là, un po’ di anni ’90, un pizzico di sound tipico del loro territorio dell’ultimo decennio – il quartetto modenese piazza un bel disco, leggero come una piastrella di gres, appunto, ma tirata dritta in mezzo ai denti.

La Giusta Distanza, primo album della band, ha la giusta dose di grazia e violenza: in otto momenti, accarezza e quando meno te lo aspetti, affonda le unghie nella carne di chi ascolta. È quello che fa già l’iniziale 10 Grammi, in cui le sopracitate influenze grunge ed emo strizzano l’occhio al punk, ma ricordano a tratti anche i Gazebo Penguins più recenti (sì, sono banale, lo so, ma la citazione sembra quasi d’obbligo). Quando poi lo strumentale s’incazza, mentre la voce di Camilla vaga su corde distorte, abbassandosi coi giusti tempi, è lì che il gruppo dimostra di conoscere bene come impazzire e dove sistemare precisamente tali impazzimenti. In Rebecca, per questi motivi, si va delineando sempre di più il vestito perfetto per il quartetto. È infatti col passare dei minuti che tutto prenderà forma, tra deviazioni che un po’ tendono a disorientare, ma con – allo stesso tempo – dettagli, anche piccolissimi, che man mano saranno sempre più nitidi e riconoscibili.
La successiva Sacrosanto ammicca allo spoken word che però degenera più e più volte col crescere dello strumentale: più che una semplice canzone, di un semplice testo che scorre, sembra di vedere parole e confessioni materializzarsi su pagine bianche, su diari intimi e privati.

Spezzata con Grazia è stato il primo episodio che mi ha lasciato piacevolmente scosso: una scarica punk che inciampa in rallentamenti iperdistorti, ma che scivola via carica di bellezza. Un incedere convincente come l’Elefante” dei Verdena, in una versione decisamente modernizzata. È un piacere lasciarsi graffiare in questo modo: è come in Grifone, la veste esemplare per questo progetto, dove strumentale violento e voce perfettamente a proprio agio, anche senza spingere in maniera eccessiva, conquisteranno facilmente anche gli ascoltatori più dubbiosi.
Che poi ci sta anche che tracce come Una Parentesi (che con la voce mi ha riportato alla mente una versione molto più distorta dei Plastico) e Per Non Dormire Solo virino verso sonorità meno spinte, meno immediate, quasi più orecchiabili (non dico pop, ma forse un po’ lo penso) e che la finale Camposanto riporti alla mente certo punk-pop, conservando comunque un credibilissimo graffio emo, facendo pensare a gruppi come i Gea o i Cosmetic.

È un disco che non appartiene ai miei generi preferiti, ma che grazie ad alcuni dettagli storti e rimandi distorti d’oltreoceano ha catturato la mia attenzione, lasciandomi stupito in maniera positiva.
V’invito a provarci, chissà che non vi capita lo stesso.

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